Al 16 dicembre 2024, secondo il report annuale di Antigone (realtà che gestisce osservatori all’interno degli Istituti Penitenziari Italiani), sono 62.153 le persone detenute negli Istituti di pena italiani, con un tasso di sovraffollamento del 132,6%. In Italia, come in molti altri Paesi, una frazione rilevante degli arrestati in un anno – tra il 40 e il 60 per cento, a seconda del modo di definire il fenomeno – ha alle spalle una precedente condanna: si tratta cioè di detenuti recidivi.
A fianco del dato del sovraffollamento in carcere si registra il dato dei suicidi: dall’inizio dell’anno al 31 marzo 2025 le persone che si sono tolte la vita sono già 26.
Fatte queste brevi premesse, la domanda che possiamo porci come operatori sociali e come donne e uomini “di buona volontà” è quella della validità del sistema detentivo quale strumento “elettivo” di rieducazione del reo e promozione della sicurezza del territorio. Gli ultimi anni dello scorso secolo e da lì i dati degli anni a seguire hanno evidenziato con rilevazioni precise e puntuali che il carcere può (deve?) rappresentare l’estrema ratio del sistema, e che l’accesso alla misura alternativa rappresenta la “vera” possibilità di ri-educazione (art.27 della costituzione) e di reinserimento della persona nel tessuto sociale. L’evocazione, lineare e semplice, del “buttiamo via la chiave” risulta allora solo un ritornello a cui contrapporre la complessità di interventi che intendono promuovere la dignità della persona, la sua responsabilità, la possibilità di riprendere uno stile di vita che preveda l’accesso ai diritti di cittadinanza (con i doveri ad essi collegati), la ripresa di un ruolo sociale (lavorativo, famigliare) e anche il ruolo della comunità quale luogo capace di accogliere e agire pratiche di riparazione del reato commesso. Una circolarità complessa che sempre più si allarga e coinvolge il territorio, riportando il carcere al centro dello stesso, investendolo della responsabilità di essere un servizio per la sicurezza del territorio e non un baluardo o un fortino deputato a nascondere e vigilare sul “male”. Ripensare al carcere come servizio significa:
- decidere di conoscere il sistema e le persone che lo abitano
- accogliere la sfida di immaginare altre opportunità e agirle nelle nostre cooperative e nelle associazioni
- continuare a considerare importante la dimensione del reinserimento contrapposto a quello più semplice, forse, della “sola” punizione
- individuare luoghi e opportunità di riparazione dell’intera comunità, certamente ferita dalla commissione dei reati.
“Buttare via la chiave” semplifica una situazione di complessità che tornerà a manifestarsi quando (e succede sempre) la chiave riaprirà la possibilità della libertà. La dimensione della reclusione non è solo televisione e mantenimento gratuito per l’intera condanna, non è solo “pena”. Ogni cella è sovraffollata e la televisione può essere solo uno strumento di distrazione; il vitto è garantito, ma non può essere l’unica garanzia contrapposta all’ozio di giornate vuote e complicate; all’ozio è contrapposto in qualsiasi luogo detentivo un percorso fatto di attività di lavoro, di sostegno alla fragilità, di avvio alla scolarizzazione o completamento della stessa, di occasioni di riflessione sul reato commesso, di partecipazione della società civile a momenti di vita all’interno degli Istituti.
Ma le occasioni sembrano sempre insufficienti e sostenere le attività e la motivazione individuale è un’opera ri-educativa quotidiana.
All’interno degli Istituti si muovono uomini e in minor numero donne sempre più giovani, con compromissioni legate all’abuso di sostanze e fragilità psichiche, i giovani della seconda generazione che non hanno trovato semplice la strada dell’integrazione in Italia, persone con profili delinquenziali che si uniscono a difficoltà sociali e psicologiche rilevanti, giovani con contorni famigliari sfilacciati e faticosi. Di fronte a questi dati (veloci e non esaustivi) “buttare via la chiave” risuona come un fallimento di qualsiasi dettato costituzionale e della nostra predisposizione alla com-passione, nella sua bella accezione di patire insieme per trovare un modo per liberarsi insieme. Buttare via la chiave, lasciare che l’esclusione del carcere e dei detenuti resti relegata per il tempo della pena alla periferia delle città, significa confermare che le persone restino nel tempo e nella loro condizione condannate a vivere guardando da lontano le possibilità di essere parte della società.
Nessuna generalizzazione è vincente, ogni fenomeno deve essere conosciuto e approfondito per poter poi essere trasmesso in modo competente e consapevole.
Quello che la nostra esperienza dimostra è che occorre avere una chiave per entrare nel disagio, una per conoscerlo, una per curarlo, una per riabilitarlo, una per condividere con la comunità il ruolo riparativo delle pratiche di giustizia.
Non c’è nulla da buttare; servono chiavi e serrature diverse, con le quali promuovere interventi di sicurezza sociale non delegati a “chi sa”, ma capaci di coinvolgere gli uomini e le donne “di buona volontà”.
Sabrina Gaiera